Strategie contro l’esproprio: il colore, il corpo, il vestito, il giocoso
Alessandra Pioselli
“Nel 2075 l’oligarchia meritocratica promulgò le leggi speciali a tutela del decoro urbano e la situazione inasprì. L’aiuolizzazione del centro divenne sistematica. Tutte le panchine nei dintorni furono soppresse a causa di frequentazioni definite sconvenienti. Si approfittò per estendere progressivamente le aiuole all’intero centro cittadino e trasformarlo in Z.I. (zona di incalpestabilità), per evitare il degrado conseguente a un accesso pubblico indiscriminato”1. Su invito dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Bergamo (ISREC), nel 2013 Daniele Maffeis ha realizzato il progetto A memoria di aiuola, in occasione del centocinquantesimo della morte di Francesco Nullo. Si è svolto attorno al monumento dell’eroe garibaldino situato nelle aiuole di Porta Nuova nel centro città. L’artista ha indagato il tema dell’indebolimento del rito celebrativo e delle forme monumentali tradizionali nel toccare il sentire comune, mettendo in scena una parodistica inaugurazione della statua commemorativa tramite un ironico tableau vivant. Il progetto è partito da una invenzione narrativa sulle sorti del monumento a Nullo dal 1907, anno della sua fondazione, al 2915. La storia è stata stampata su libretti distribuiti ai passanti. Il frammento riportato prosegue chiosando che “i monumenti dei patrioti si persero in un caleidoscopio di ardite composizioni floreali” e che “sulla testa di Nullo venne incidentalmente installata una fioriera di bouganville”2. La fiction storica di Daniele Maffeis ha affidato significati inaspettati al monumento ed è divenuta la chiave per rendere evidenti le relazioni tra potere politico e spazio pubblico. Nella parte della storia citata, l’artista ha tematizzato in modo paradossale le conseguenze della volontà di disciplinare l’uso dello spazio urbano che, esasperata, porta a negarlo come spazio dell’uomo e dell’imprevisto, cristallizzandolo in una vuota forma autoreferenziale.
L’anno successivo A memoria di aiuola, nel 2014, l’ex giunta comunale di Bergamo ha deciso di impiantare sbarre sulle panchine pubbliche, dividendo la seduta in posti singoli. Ha inteso impedire agli immigrati di sdraiarsi. Un banale bracciolo di ferro ha tracciato la linea invalicabile del lecito e del decoro, e trattenuto qualsiasi persona dal lasciarsi andare a posizioni non ortodosse. Le norme d’uso e di accessibilità irrigidite in nome del decoro o della sicurezza fanno perdere allo spazio pubblico le qualità fondamentali affinché sia tale, la temporalità e la relazionalità, benché continui a mantenere la dimensione spaziale.
Lo spazio pubblico è, difatti, leggibile attraverso le direttrici dello spazio-forma e del tempo-relazione, e si può affermare che non è deterministico che una “buona forma” produca “buone” relazioni sociali. I fattori in gioco spesso sfuggono a qualsiasi pianificazione. Il rischio dell’arte nello spazio pubblico (fisico, urbano) è che contribuisca inconsapevolmente a congelarlo in un’immagine di pulizia da cui è bandito il libero uso, il caso e l’inciampo. L’accessibilità è una qualità dello spazio pubblico, inerente all’opportunità che possa viverlo una pluralità di attori sociali più allargata possibile, entrando in relazione. Come puntualizza Ugo Mattei, difatti, la piazza “non è un bene comune in quanto mero spazio fisico urbanistico, ma lo è in quanto luogo di accesso sociale e di scambio esistenziale”3.
L’accessibilità è una condizione sia fisica, sia psicologica: lo spazio diventa pubblico quando è riconosciuto e sentito come tale. Senza questo riconoscimento lo spazio pubblico evapora. Una vasta letteratura critica si è concentrata da qualche tempo sulle ragioni della sua crisi e della sua concettualizzazione, facendo notare le pressioni che lo incrinano. L’industria strumentale della paura, da una parte, e il potere e la visibilità del capitale privato, dall’altra, sono fenomeni rilevanti che impattano sugli spazi pubblici anche delle città italiane. A Milano, in un luogo restituito finalmente alla città, la Darsena, la pubblicità di una nota compagnia telefonica riveste perfino i lampioni. Si dà per scontato che la sottomissione al mercato sia normale e indispensabile. La rinuncia a trovare soluzioni alternative o contrattualmente differenti nella partnership pubblico-privato palesa la fiacchezza della politica (e dei cittadini?) nel dare corpo a un’idea di città. La debolezza di visione apre il fianco ai mille rivoli del ritrarsi dello spazio pubblico che è offeso, limitato, disciplinato. Se espropriare significa privare di un diritto o di una facoltà, quale tipo di confisca suggeriscono gli esempi citati? Le forme dell’esproprio sono più o meno violente o visibili, e gli spazi pubblici sono occupati da poteri che li assoggettano visivamente a delle logiche di controllo o di persuasione. Lo spazio è inevitabilmente il teatro di rappresentazioni di poteri intesi come forze dei vari stakeholder nel dargli significato e plasmarlo.
Guardiamo ancora Milano: nell’area dove da qualche tempo deve nascere il parco pubblico I giardini di Porta Garibaldi, la Fondazione Catella, in collaborazione con la Fondazione Trussardi e Confagricoltura, ha promosso la realizzazione dell’opera di land art Wheatfield di Agnes Denes, legata al tema dell’Expo 2015.
Con le debite (e sostanziali) differenze storiche e di significato, l’operazione della semina del grano fino alla mietitura, che l’artista fece per la prima volta a New York nel 1982, a Milano richiama altri campi e altre raccolte pubbliche delle messi: fotografie d’epoca mostrano i campi di grano voluti in città da Benito Mussolini, bandiera dell’autarchia italiana. Implicitamente sorge la domanda su quale rappresentazione di forze diventi il campo della Denes, di là dai significati connessi all’ecologia e alla sostenibilità. Esplicita la presenza del privato che sostituisce il pubblico? Dopo l’edificazione dei palazzi, il parco pubblico non è stato ancora realizzato. Il vuoto è visibile, c’è l’Expo, cosa farci? Il grano si ammira percorrendo la strada pedonale che lo attraversa. La visione è suggestiva. La raccolta è stata organizzata come una festa collettiva degli abitanti ma fino a che punto tutto questo è pubblico? Fino a che punto la festa rivela le forze che ne organizzano la struttura? Da una parte si privatizza lo spazio pubblico, dall’altra l’ossessione della sicurezza, la politicizzazione e la mediatizzazione della paura acuiscono la percezione del pericolo rispetto alla realtà; allora la città è motivo di ansia perché i luoghi sono abitati da potenziali nemici. In questo modo si atrofizza lo spazio pubblico della città contemporanea o sfuma la fiducia nella sua possibile costruzione ed esistenza.
Nonostante tutto la gente supplisce tatticamente alla sua mancanza attraverso spontanee relazioni sociali. Nascono spazi informali, discontinui, mutevoli, immateriali: una galassia in movimento. È una dialettica tra la sottrazione o il controllo dello spazio pubblico e la sua continua reinvenzione. Accade, però, che la pratica artistica ricerchi il pubblico inteso come mera audience o che supplisca alla mancanza di altre politiche (sociali, culturali), o che sia manifestazione non direttamente visibile (e a volte inconsapevole) di forme di marketing urbano.
Quentin Stevens e Julia Lossau, curatori della pubblicazione Framing Art and Its Uses in Public Space, leggono la questione del rapporto tra l’opera e lo spazio urbano dal punto di vista dell’uso quotidiano da parte delle persone4. Sulla scorta di Jane Rendell, essi puntualizzano l’intenzione di guardare non alle funzioni delle opere, come sono date in modo implicitamente prescrittivo dagli autori, dagli sponsor o dai committenti, ma all’uso fisico e simbolico che ne fa la gente, considerando che il focus sulle pratiche d’uso permette di rileggere le relazioni di potere. Valutano che l’uso talvolta involontario o spontaneo di un’opera collocata nello spazio pubblico da parte delle persone sia interpretabile come una forma di critica, di verifica o di valutazione anche inconsapevole dell’opera stessa. In particolare, Quentin Stevens osserva sul campo l’uso spesso inaspettato che le persone fanno delle sculture urbane, leggendo il rapporto tra le caratteristiche materiali delle opere e le risposte del corpo e i comportamenti oltre le intenzioni dell’artista. Partire dall’uso attraverso il corpo è una prospettiva che rivela scenari interessanti. Potrebbe mostrare come opere frutto di approcci considerati tradizionali o che rispondono a logiche di committenti e sponsor siano vissute e usate dalle persone in modi inaspettati che palesano una libertà comportamentale e di giudizio non per forza incanalata in un dettato a priori, come se attraverso l’uso si giocasse la partita tra l’agire di un “dispositivo” e la messa in atto da parte dell’individuo di contro-dispositivi.
In questo testo sono analizzati due lavori che propongono altrettante possibilità di resistenza alla svalutazione dello spazio pubblico e della correlata vita sociale. Entrambi sono lavori site specific e attingono alla categoria del “festoso”, con il suo spettro di significati che implicano il “gioioso” e l’“accogliente”. Entrambi gli approcci assumono la relazionalità sociale come presupposto della concreta esistenza dello spazio pubblico, non considerato un dato a priori, e mettono in campo una dinamica tra lo spazio, il corpo e i valori affettivi e memoriali connessi a un luogo. La categoria del “festoso” e dell’“accogliente” è declinata nell’attività di Wurmkos. Il Progetto Cénte (2010-2013) è uno dei due lavori. In questo progetto, la relazionalità alla base del suo svolgimento si è spazializzata.
Ha preso la forma del corteo urbano che ha attraversato il paese di Latronico (Basilicata) a sua conclusione. Lo si vedrà più avanti nel testo.
Altre operazioni (e di altri autori) propongono percorsi inversi a partire dalla definizione di uno spazio fisico che, per la sua qualità materiale, diventa un luogo di prossimità e di osservazione dell’altro, di vita sociale, di relazioni esistenziali, infine. Lo spazio fisico rimane il motore. È la prassi che sostanzia la ricerca di un’artista come Elisa Vladilo. La si può prendere come campione di un modo di operare interessato all’uso dello spazio che la gente fa con il corpo, misurando la predisposizione di un campo accogliente, dotato di qualità visive (colore) e tattili (morbidezza). C’è, in particolare, un lavoro dimostrativo di questo approccio, quello realizzato nel 2007 presso il molo di Trieste. Qui la Vladilo ha rivestito con tessuto colorato, turchese, rosa e arancio, una parte della banchina, i lampioni e le bitte presenti sul posto, caro all’artista e ai cittadini che vanno per passeggiare e rilassarsi. My favourite place è il titolo affettivo del progetto. Peculiarità del suo lavoro è usare nello spazio urbano il colore puro, qualificato da tonalità vivaci, che contrastano con l’intorno in modo da creare momenti di sospensione magica. Il codice timbrico è sfruttato per vivificare le proprietà dei luoghi. A Trieste l’intervento ha enfatizzato un valore intrinseco a un luogo come il molo che, in un certo senso, è già quello del sogno: l’affaccio sull’orizzonte del mare che è miraggio e avventura. La grammatica del colore della Vladilo è accessibile e diretta. Ha una qualità comunicativa d’immediata comprensione che rimanda ai giochi per l’infanzia, a una forza elementare del segno e del linguaggio. Il progetto è stato marcato da un’altra dimensione solitamente negata nello spazio urbano, quella tattile: la moquette azzurra calpestabile è stata realizzata in feltro, il rivestimento dei lampioni e delle bitte in gommapiuma e pannolenci. Il colore si è opposto al grigio del molo, il morbido al duro della pietra. L’uso di materiali soffici ha dato risalto alla valenza ludica che rimane la chiave d’accesso da parte del pubblico.
Eliminati gli ostacoli fisici e mentali, si può retrocedere dalla serietà dell’adulto, tornare fanciulli come in un campo giochi? Se “la città moderna ha fallito nel soddisfare questo insaziabile desiderio di gioco” dei bambini, cosa succede agli adulti?5 Su un soffice tappeto turchese come il mare ci si può sdraiare, assumendo posizioni rilassate. Se l’importanza del gioco all’interno della società è di “creare una zona cuscinetto nella contrapposizione tra personalità e cultura, tra tendenze al mutamento e alla conservazione”6, nell’analizzare il concetto di “confine”, Piero Zanini dettaglia che “queste zone cuscinetto, queste buffer zone, hanno una funzione fondamentale se si vuole evitare che il gioco si trasformi in conflitto: quella di introdurre e mantenere vive le idee di ‘disponibilità e compromesso’, la possibilità del dubbio. Si tratta di vere e proprie soglie (…) che garantiscono, una volta entrati, la possibilità di provare qualcosa di diverso senza il timore di perdere la propria identità. Senza richiedere necessariamente un cambiamento, ma solo un po’ di disponibilità a giocare con l’altro”7. La zona franca del gioco è l’ambito della mediazione e della decompressione8. Tra realtà e incantesimo – lo spazio mascherato, travestito, sospeso nel tempo della fiaba – non c’è frattura ma un passaggio che immette in una condizione spazio-temporale di meraviglia. “Il termine agio indica”, per Agamben, “secondo il suo etimo, lo spazio accanto (ad-jacens, adjancentia), il luogo vuoto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente, in una costellazione semantica in cui la prossimità spaziale confina col tempo opportuno (ad-agio, aver agio) e la comodità con la giusta relazione”9. In My favourite place c’è una vera e propria soglia che si attraversa tra spazio “non mascherato” e spazio “mascherato” (la parte del molo non coperta e quella ricoperta). Si scivola in questo “spazio accanto” attraverso il corpo. Ci si mette comodi ma non solo letteralmente e fisicamente. Questo luogo “altro” è quello del possibile e, si potrebbe aggiungere, della disponibilità, della “giusta” disposizione d’animo. Nientemeno, il colore solare per Elisa Vladilo è un invito ad avere un atteggiamento più favorevole verso la vita (perciò, verso gli altri), abbassando la temperatura dell’ansia. Questo è il luogo praticabile non meramente fisico della disponibilità, negata dalla sbarra inchiodata a una panchina o dall’aiuolizzazione di un centro storico ipotizzata nel racconto di Maffeis.
Nel 1998 Wurmkos ha realizzato l’operazione Tre nell’ambito della mostra Figure dell’anima (Palazzo Visconteo, Pavia). Ha messo a disposizione del pubblico delle opere/oggetto che potevano essere manipolate e indossate. Il progetto in progress ha coinvolto molte persone nella reinvenzione creativa dei materiali e del proprio corpo. Pasquale Campanella e Elisabetta Longari si sono serviti del concetto di “corpo grottesco” di Michail Bachtin come “corpo in divenire”, che “non è mai dato né definitivo” perché “si costruisce e crea in rapporto con un altro”, per illuminare il carattere trasformativo e relazionale dell’indossare un abito “altro”10. Nel lavoro di Wurmkos l’opera è abito, e l’abito è affondo nell’io al cospetto degli altri, travestimento inteso come rivelazione, confessione come comunicazione. La differenza nel progetto Tre rispetto al “gioco fittizio” del “fare finta di essere…”, che appartiene alla categoria della micricy (mimetismo, mascheramento) secondo Roger Callois11, risiede nel fatto che la reinvenzione del corpo non si adegua a figure precostituite socialmente, a modelli decodificati. Essa pesca nelle trame di un’esperienza che si vuole liberare da sovrastrutture. L’“apertura verso l’alterità”, di cui parlano Campanella e Longari si può valutare, in primo luogo, come l’alterità del proprio io12. C’è un corpo che cerca di stare “a proprio agio” o che, invece, manifesta un disagio, ed è in questa dialettica con il sé che si rinnova quella con l’altro da sé. Se in My favourite place lo spazio è stato il mezzo di connessione con l’altro attraverso l’agire del corpo, nel lavoro di Wurmkos, in Tre, si è trattato dell’opera-abito. Nel primo caso il colore rimane il mezzo empatico che permette di relazionarsi con lo spazio in una dimensione anche psicologica, come sostiene l’artista, sociale, condivisa. In Tre la relazione con gli altri è avvenuta attraverso la vestizione-rivelazione del corpo.
Questa riflessione sul tema dell’abito-abitare, che attraversa la ricerca di Wurmkos negli anni, è confluita nel Progetto Cénte. Esso ha vissuto due fasi, quella laboratoriale e il corteo festoso che l’ha conclusa, realizzato nell’estate del 2013.
La tradizione delle Cénte, castelli di candele e materiali vari portate sulla testa dai devoti durante le processioni religiose, sopravvive in Basilicata. Le Cénte del progetto sono state ideate e costruite dagli abitanti di Latronico che hanno partecipato ai laboratori. Esprimono immaginari personali. Il corteo si è svolto in un giorno qualsiasi della settimana, sganciato da qualsiasi ricorrenza. Ha assunto mimeticamente la forma rituale del corteo religioso, ma con una dimensione laica e festosa, accompagnato da una banda musicale. I riti si fondano su regole che disciplinano la scansione degli avvenimenti, i gesti e la funzione dei simboli, ma una festa si può sottrarre all’auctoritas. A differenza della festa milanese di semina e raccolta del grano, quella di Latronico, nella forma del “corteo festoso”, come lo definisce Wurmkos, si è auto-generata, con un buon margine per l’improvvisazione. In analogia alla processione per Sant’Egidio, patrono del paese, il corteo di Wurmkos è sfilato passando dalla piazza ma è terminato, diversamente dal religioso, nel bosco. Non è stato un happening nella forma storicamente intesa. La sua natura è derivata da un percorso partecipato di laboratorio che ha avuto lo scopo di rinnovare il senso di un elemento culturale riconoscibile dalla collettività (la cénta), ma anche a rischio di perdita. Se l’esperienza “liminale del teatro” risiede “nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile”, il Progetto Cénte ha decostruito e ricostruito un segno culturale attraverso l’esperienza soggettiva (delle persone intervenute)13. Non è la cénta della tradizione ma la propria: segno scomposto e ricomposto, per l’appunto. La discussione attorno ai rituali e ai modi della memorializzazione odierna ha spesso sottolineato lo svuotarsi delle cerimonie celebrative (e del monumento), come l’operazione di Daniele Maffeis, citata a inizio testo, ha messo in evidenza.
Le forme della memoria sono classificabili in differenti categorie. La memoria culturale è “quella particolare forma di memoria semantica, la cui istituzionalizzazione in seno a una comunità la rende persistente nel tempo”, le cui manifestazioni sono, per esempio “le pratiche discorsive, i riti commemorativi molto istituzionalizzati, i miti, i racconti”14. La memoria collettiva contiene, invece, una “dimensione vivificante” e “affettiva”15. In che modo la memoria culturale può mantenere la dimensione affettiva inerente a quella collettiva? Il Progetto Cénte si può leggere alla luce di un segno che non ha ancora perso del tutto il valore parlante. Le cénte personali riscrivono significante e significato dell’elemento culturale originario. Anelano a rinnovare il legame affettivo con questa radice storica, opponendosi alla possibile frattura del senso che le porterebbe a divenire vuoti significanti. Indossare la propria cénta è una forma di mascheramento-rivelazione che intende liberare degli immaginari vivificanti, come l’oggetto/abito del progetto Tre: in atto è la relazione tra la persona e l’oggetto. Nel gesto della vestizione si apre una dimensione di soglia liminale di “spazio dialettico aperto contemporaneamente sull’interno e sull’esterno, sul reale come sull’immaginario”16.
A Latronico questi immaginari pescano duplicemente nel personale e nel collettivo, essendo la cénta connessa alle strutture profonde del luogo e al suo spessore temporale. Avviene in un secondo momento la remissione in pubblico: il corteo, ed è festoso. Una sfilata che taglia lo spazio urbano costruisce della città un’altra mappa, un altro spazio transitorio, fatto per punti stabiliti se appartiene a un rito codificato ma, se è festoso, è possibile lo scarto di lato, la deviazione. Qui si gioca la partita: il corteo scandisce i luoghi di quello religioso, riconnettendosi alla ritualità riconosciuta, ma si apre verso altri immaginari, altre figurazioni. La forma della parata urbana è stata praticata da molti artisti, ma la struttura del corteo di Wurmkos è derivata dall’antropologia del territorio17.
Il Progetto Cénte si collega a diverse esperienze di pratica artistica legata alle stratificazioni identitarie, ma più in particolare può trovare corrispondenze con il coacervo di manifestazioni che hanno animato il Sud dell’Italia, con il lavoro sulla vitalità della cultura materiale, contadina, atavica, con la critica a un’altra forma di esproprio, quella nei confronti della cultura popolare. Andando indietro nel tempo, i riferimenti possono trovarsi in figure come Giuseppe Desiato, Riccardo Dalisi, Mario Cresci (in Basilicata), le sfilate del gruppo degli Ambulanti nella Napoli degli anni Settanta. Gli Ambulanti, per esempio, hanno usato la forma della parata e della festa urbana per portare nei vicoli napoletani elementi fantastici che pescavano nell’immaginario popolare e nel substrato ancestrale della fiaba, con un carattere d’improvvisazione performativa18.
Un progetto come Cénte fa resistenza ai format vacui del popolare fittizio, e il popolare si “disneyzza” se non c’è la cura quotidiana delle cose e dei gesti. Quando la riscoperta della tradizione è materia di folklore e di marketing turistico, ingabbiata nel cliché dell’etnico locale, il compito arduo rimane quello di dare un senso alle cose. Solo le persone nel fondo della propria esperienza possono farlo. Si tratta di affidarsi al processo creativo, lasciarsi coinvolgere e farlo proprio, e con questo atto gratuito mettere in gioco energie che riverberano sul quotidiano, che liberano (forse) la possibilità di leggere oggetti, relazioni, spazi attraverso le figurazioni dell’immaginario nel suo potenziale trasformativo. Questo vale per ogni operazione artistica. È un desiderio di partecipazione senza fini utilitaristici, di fiducia che qualcosa possa accadere, di apertura alla “meraviglia”.
Per finire, nelle discussioni sulla dimensione pubblica e sociale dell’arte rimane in sordina un aspetto, che il pubblico e il sociale non sono altro da sé. Non sono cornici che racchiudono gli “altri” verso cui l’artista procede o a cui anela. Il sociale siamo noi, lo costruiamo ogni giorno. Per questo, si possono ribaltare le domande: se lo spazio pubblico ha bisogno dell’arte, perché l’artista ne ha bisogno? Quali sono le motivazioni (esistenziali, non professionali) che lo muovono a cercare determinati contesti? Se si chiede come la pratica artistica possa incidere in un luogo e avere un lascito (per ogni pratica, è tutto da assodare), è importante interrogarsi su come questa relazione modifichi l’esperienza dell’artista come persona. Se egli prova a costruire “soggettività”, quale “soggetto” che compete la sua persona sta costruendo? Sente che un luogo, una situazione, una relazione, gli possano appartenere divenendo parte del suo vissuto, come il molo del sogno è appartenuto a Elisa Vladilo che lo ha chiamato il suo (my), pensando che quell’aggettivo possessivo di prima persona singolare rispecchiasse ogni individuo che l’avesse fatto proprio? Non tenendo in considerazione l’opportunità di rovesciare le domande in un modo probabilmente anche introspettivo, il sociale, il pubblico, il territorio possono slittare su un piano astratto, letti come il “fuori” verso cui dirigersi per salvarsi dall’assoggettamento, da una presunta non consapevolezza, dalla perdita o dall’esproprio. Essi rimangono un orizzonte posizionato in un altrove che si pensa di capire o di mutare senza chiarire che può modificare, in primo luogo, la propria storia. Nella disamina delle relazioni tra la pratica artistica, lo spazio urbano, la sfera pubblica, è significativo il portato delle esperienze individuali e delle soggettività che si definiscono per tutti gli attori in campo in ogni singolo e concreto contesto storico.
Note
1. Daniele Maffeis, Storia del monumento di Francesco Nullo dalla sua fondazione all’anno 2915, per il progetto A memoria di aiuola, racconto disponibile su www.danielemaffeis.net
2. ibidem.
3. Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 62.
4. Quentin Stevens, Julia Lossau, a cura di, Framing Art and Its Uses in Public Space, Routledge, New York, 2015.
5. Jane Addams, The Spirit of Youth and the City Streets, Macmillan, New York, 1930, riportato in Colin Ward, Il bambino e la città, L’ancora, Napoli, 2000, p. 158.
6. Carlo Mongardini, Saggio sul gioco, Franco Angeli, Milano, 1986, p. 72, riportato in Piero Zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 144.
7. Piero Zanini, Significati del confine, cit., p. 144.
8. In anni recenti hanno utilizzato lo strumento del gioco collettivo, con vari significati, gli artisti Anna Scalfi Eghenter, Danilo Correale, Adelita Husny Bay, Franco Ariaudo, solo per citarne alcuni.
9. Giorgio Agamben, La comunità che viene, p. 24-25.
10. Michail Bachtin, Rabelais, Einaudi, Torino, 1979, p. 348, riportato in Pasquale Campanella, Elisabetta Longari, Palco, catalogo mostra, a cura di Associazione culturale Raccolta, Raccolta Multimedia, Roma, 1998, s.p.
11. Roger Callois, I giochi e gli uomini, IV ed., Bompiani, Milano, 2007, p. 25 e pp. 36-40.
12. Pasquale Campanella, Elisabetta Longari, Palco, cit., s.p.
13. Piero Zanini, Significati del confine, cit., p. 148.
14. Lorenzo Migliorati, Il problema, in ISREC, a cura di, ReMark. Remembrance Marks, Il filo di Arianna, Bergamo, 2013, p. 16.
15. Lorenzo Migliorati, cit., p. 15.
16. Piero Zanini, Significati del confine, cit. p. 147.
17. Si veda recentemente in Italia, per esempio, la processione di Enzo Umbaca Adotta la Dea di Locri (Locri, 2014), radicata nel luogo specifico, come il corteo di Wurmkos.
18. Si veda Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan&Levi, Milano, 2015, pp. 62-64.
Associazione Culturale Vincenzo De Luca
L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca si costituisce nel 2005 a Latronico, in Basilicata. Dal 2008 promuove, autofinanziandosi, il progetto A Cielo Aperto, curato da Bianco-Valente e Pasquale Campanella, un’occasione per fare il punto sul senso e sui possibili sviluppi dell’arte in relazione a un contesto locale e alle sue specificità. La progettualità praticata nei laboratori è un elemento fondamentale per il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini. La politica culturale messa in atto si inserisce nel dibattito in corso sull’arte contemporanea, per lo sviluppo di un localismo consapevole, da cui far emergere storia, forme materiali e simboliche che accrescano il valore di spazio e luogo pubblico.
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Associazione culturale Vincenzo De Luca
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