Pubblico, al limite
Elio Grazioli

Confesso di avere molte perplessità sulla cosiddetta “arte pubblica”, ma d’altro canto di non avere una preparazione specifica, soprattutto politica e sociale, per discuterla in tutta la sua ampiezza. Credo che per me conti – laddove si voglia, com’è giusto, andare incontro al sociale e al “pubblico” – la discrezione del proprio intervento, atteggiamento e ruolo, e che ogni rivendicazione o esasperazione portino fuori strada. Penso infatti che l’arte occupi proprio il delicato punto che sta tra il personale e il pubblico, tra l’intimo e l’esposto, tra l’individuale e il condiviso, cioè si occupi di ciò che sta sul bordo tra i due ambiti e da un ambito passa all’altro. Sappiamo che l’arte contemporanea ha spaventato molto il pubblico – e uso di proposito il termine nei suoi due significati – perché è sembrata andare al di là del limite accettabile e comprensibile, ma il suo stesso portato storico è stato proprio quello di portare ogni aspetto, del linguaggio così come del sentimento e del senso, del comportamento e della forma, appunto al limite, sul limite, sul bordo che è proprio ciò che è condiviso, dove le cose si toccano.

La mia generazione è cresciuta in un contesto culturale ipercritico nei confronti di tante faccende e concetti, naturalmente perché erano in parte anche degenerati, svuotati, quando non addirittura deformati, manipolati, rovesciati. C’era perciò bisogno di cambiare e tornare a riflettere su tutto; fu fatto in modi che apparivano critici e oppositivi, formalisti e severi, fino al punto che l’arte nel suo complesso si è ritrovata in una condizione di autoreferenzialità chiusa. Si è allora ricominciato a interrogarsi sulla sua funzione, sul suo ruolo, sulla condivisione e la partecipazione, sulla relazione, scambiandola però molto spesso o con l’imposizione dettata da buone intenzioni o con l’accettazione momentanea da parte delle comunità coinvolte. Si è così dimenticato che lo sforzo riflessivo e operativo aveva allargato in modo positivo il campo delle sue possibilità, cambiando l’aspetto, la materialità, le condizioni dell’opera, e il suo stesso statuto, e appunto anche le sue funzioni.

Si è contrapposto l’antimonumento al monumento perché la funzione celebrativa era degenerata in manipolazione ideologica, perché la memoria era diventata un’arma di sopraffazione, perché si criticava il privilegio gerarchico dei luoghi, dei materiali, delle figure, perché il monumento era calato dall’alto, perché non aveva una forma necessaria, perché la scultura rivendicava un altro statuto spaziale, materiale, processuale, che contraddicevano quello del monumento. Ma la memoria non ha niente di negativo in sé, né la stabilità né la materia né la celebrazione, nei confronti delle quali l’arte deve delle risposte propositive, delle riflessioni che siano diverse, altre, da quelle che vengono dalla politica, dalla scienza, dalla filosofia, dalla sociologia.

Portare al limite significa appunto questo. Quando si va troppo in un senso, allora si passa il limite, ed è meno “arte”, almeno secondo me. La stessa riflessione sull’arte per me si misura su questo indagare i limiti, gli equilibri, le potenzialità, i passaggi.

Ora, pur non avendo seguito da vicino tutto il progetto A Cielo Aperto, conosco molto bene Pasquale Campanella che per me è garanzia di veracità e dell’impegno dell’operazione stessa. La sua generosità non è mai ingenua, il suo impegno non è di quelli che occasionalmente si applicano all’aspetto pubblico dell’arte, ma, al contrario, è proprio di uno che quando ha capito che le due cose non erano separabili ci si è buttato per sempre. Per lui la dedizione pubblica deve cambiare l’arte, ed è stato tra i primi a livello internazionale a fare dell’operazione pubblica non un’applicazione didattica, terapeutica, sociale o altro, ma l’operazione e la forma stessa della sua arte. Il suo agire pubblico è la sua “opera”, e questo cambia lo statuto e l’aspetto stesso – come in un readymade, dove l’oggetto è lo stesso ma ora è arte – degli oggetti, installazioni, eventi, che vengono prodotti dagli altri attraverso la sua azione.

In che cosa consista questa sua azione è già in sé difficile da definire: è attivazione, è regia, è agencement, per usare termini noti, o è altro? Non è scultura sociale, non è arte relazionale. È fin dall’inizio qualcosa, appunto, al limite di tutto questo, esattamente il loro margine, il bordo attivo, reale, estetico. E Campanella lo fa da sempre con una discrezione, senza rivendicazioni né discorsi totalizzanti, che invalida il suo essere arte. Non sfugga in questo il lato misterioso, se così posso dire – comunque tutt’altro che scontato –, della sua operazione artistica, proprio perché indefinibile secondo i parametri noti, tutti portati al limite della loro definibilità. Non è questo il luogo per andare più in dettaglio, a me basta evidenziare che qui anche “pubblico” acquista un senso diverso, un senso estetico.




Associazione Culturale Vincenzo De Luca
L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca si costituisce nel 2005 a Latronico, in Basilicata. Dal 2008 promuove, autofinanziandosi, il progetto A Cielo Aperto, curato da Bianco-Valente e Pasquale Campanella, un’occasione per fare il punto sul senso e sui possibili sviluppi dell’arte in relazione a un contesto locale e alle sue specificità. La progettualità praticata nei laboratori è un elemento fondamentale per il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini. La politica culturale messa in atto si inserisce nel dibattito in corso sull’arte contemporanea, per lo sviluppo di un localismo consapevole, da cui far emergere storia, forme materiali e simboliche che accrescano il valore di spazio e luogo pubblico.

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Associazione culturale Vincenzo De Luca
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