Latronico è più grande di New York
Maria Teresa Annarumma
Milioni e milioni di contadini e anche di operai - al Sud e al Nord - che da certamente un’epoca molto più lunga dei duemila anni del cattolicesimo si conservavano uguali a sé stessi, sono stati distrutti (...). La loro natura è stata abrogata per volontà dei produttori di merce1.
La nostra quotidianità è accompagnata da molteplici risorse informative che, se da un lato ci offrono conoscenza, notizie e disinformazione, dall’altro ci dettano modi di pensare, metri di giudizio e percezioni che possono modificare significati e bloccare potenzialità.
Affermare l’ovvio, ricordando che viviamo in una società di mercato e che questa sia sostenuta mediaticamente, non implica che sia altrettanto scontata la consapevolezza delle conseguenze che questa comporta nella vita quotidiana di ciascuno e di quanto debba considerarsi indispensabile l’acquisizione di una coscienza resistente.
Da ciò è scaturito il mito della globalizzazione che ormai da tempo ha perso la sua aura di strumento di progresso. I movimenti no global2, nonché una diffusa letteratura che vede per i più in No Logo di Naomi Klein3 il testo capostipite, non solo hanno mostrato quanto economicamente il mito della globalizzazione abbia creato e sostenuto una sperequazione della ricchezza mondiale, ma anche, quanto sia diventato sinonimo di omologazione, con un costo sociale e culturale altrettanto o anche più nocivo.
Per il contesto in cui si inserisce questo testo, non è opportuno inoltrarsi troppo nelle dinamiche economiche e politiche che ciò ha comportato, come pure nei nuovi scenari che filosofi4, economisti5 e nuovi movimenti politici6 stanno creando in opposizione a questi modelli; quello che è invece giusto notare è che il mercato e il connesso giudizio di valore sono divenuti il metro attraverso cui giudicare un artista e il suo lavoro.
La demagogia è nemica dell’arte e quindi, con quanto affermato, non intendo ribadire la relatività dell’importanza del valore di mercato delle opere d’arte (anche se è da sottolineare quanto questa condizione limiti sia ciò che è possibile economicamente per gli artisti, sia ciò che è più facilmente accessibile per il pubblico). Quello che invece intendo rimarcare è che i parametri soggettivi e collettivi, con cui si giudica un’opera, sono spesso figli della logica di mercato, tanto da spingere a considerare “arte” solo ciò che segue i consueti canali della commercializzazione, oppure ciò che è visibile nel maggior numero di fiere o di musei (visto il numero sempre crescente di istituzioni nel mondo verrebbe da chiedersi di quali musei stiamo parlando?).
La logica del mercato fa parte della storia dell’arte: da sempre ci sono artisti che in vita hanno ottenuto successo e fama e altri che sono stati riconosciuti solo dopo la morte. Peculiare al nostro tempo è, invece, l’amnesia verso gli scopi dell’arte e il valore della sua pratica all’interno del tessuto culturale di qualsiasi società: si è soliti parlare di arte come di un bene di consumo di lusso, come lo può essere un’auto, citando quotazioni a sostegno di un artista, come si farebbe con l’acquisto di una villa al mare. Le fiere, come le gallerie, divengono il “pedigree” dell’artista di “razza”.
Sorte simile è per i musei di fama internazionale che fanno bella figura nel “pedigree” di cui parlavamo ma, allo stesso tempo, sono sempre più divisi tra il desiderio di raggiungere il maggior numero possibile di visitatori/consumatori e quello di affermarsi globalmente come brand (vedi il proliferare dei Guggenheim nel mondo o delle Tate nel Regno Unito): la riconoscibilità, così come la commerciabilità di un nome e di un’opera, segue gli stessi meccanismi della commercializzazione di una catena di ristoranti dove, nel caso dei musei, si presuppone che New York o Londra siano il centro del mondo e che le loro succursali siano appendici periferiche finalizzate a confermare il loro primato.
Non voglio certo smentire che istituzioni quali il MoMa oppure la Tate abbiano un valore culturale o che le loro mostre abbiano una risonanza notevole nei media, quello che ritengo necessario è ribadire che il mondo non è New York, Londra o Pechino e che, dal punto di vista se non altro numerico, la maggioranza della popolazione vive nella cosiddetta periferia.
Se persino riviste quali Forbes7 fanno passi indietro e rivalutano il valore del locale, tradotto in termini di prossimità e vicinanza, ancora di più l’arte e la sua pratica dovrebbe riconoscere in essa un suo cardine: infatti, parlare di locale non solo significa tradurre il proprio lavoro in un’ottica attenta al pubblico e alla sua storia personale e collettiva, ma significa soprattutto diventare parte della specifica relazione che l’arte può far nascere ed evolvere.
Credo fermamente che l’arte debba avere come presupposto una profonda vocazione sociale e storica, sia come riflessione sull’oggi, inteso anche nella sua relazione con il passato, sia come strumento con cui ipotizzare nuovi scenari e sperimentare. Tuttavia, sono consapevole che per molti l’arte possa avere scopi e significanti anche opposti a questi o possa rappresentare la negazione di un qualsiasi afflato sociale (ma anche in questo caso sosterrei la politicità di una scelta di tal guisa), ma nessuno potrà negare che l’arte, in quanto espressione, è ontologicamente legata a una relazione, più o meno diretta, più o meno profonda, con lo “spettatore”8 o, perlomeno, a un soggetto differente dall’autore.
Sotto questa luce, parlare di locale prende significati profondi ed essenziali che danno senso all’apparente titolo ironico: “Il locale è la specifica produzione di varie opzioni storiche con cui noi siamo presentati e fra le quali dobbiamo scegliere, elidendo qualsiasi nozione di identità. Il problema è non celebrare cosa siamo, ma chiedere a noi stessi perché siamo quello che siamo, e cosa possiamo essere. In questo senso, non c’è identità perché non si tratta di un soggetto unico, ma di una molteplicità di relazioni che riproducono diverse posizioni del soggetto”9.
Locale, quindi, in un’accezione che evita qualsiasi tentazione di comunitarismo e di esaltazione identitaria, sceglie di guardare alla storia nella sua essenza motrice, nei termini in cui Fernand Braudel definiva la Long Durée10: una storia che regge dal basso grandi eventi come guerre o cambiamenti politici ma che ha una forza ed estensione maggiore perché relativa alle relazioni, i linguaggi, le tradizioni che sostengono le società e non sono influenzate, se non in minima parte, dai temporanei eclatanti avvenimenti con cui in genere si identifica la storia.
Potremmo parlare di storia minima, perché relativa al nostro quotidiano che ha accompagnato i nostri progenitori e accompagnerà i nostri discendenti ma una definizione del genere, potrebbe tradire un giudizio di grado che non è immaginabile. Quando parlo di locale e per assurdo affermo che Latronico è più grande di New York, intendo riferirmi alla potenzialità relazionale che questa ha e che permette di rendere permeabile la storia di ciascuno di noi alle influenze dell’altro. Significa vicinanza non solo fisica ma culturale, significa guardare a quella storia comune che Pasolini sentiva in pericolo, minacciata da un consumismo non solo economico, ma soprattutto di relazioni e di storia e che possiamo personificare in megalopoli come New York (in quanto modello riconoscibile).
Se le ultime strategie di marketing guardano al locale, per rendere i prodotti più vicini e familiari al consumatore, è senza dubbio dovuto alla capacità che queste hanno di percepire velocemente i cambiamenti sociali e di adeguarvisi nel più breve tempo possibile al fine di mantenere attivi i loro utili. Oggi, infatti, dopo anni di individualismo collettivo e di fede cieca in un ideale di progresso basato sui meccanismi speculativi consumistici, si è iniziato a verificare come la spersonalizzazione in qualsiasi tipo di pratica, da quella commerciale a quella politica, ha creato senso di distanza e sfiducia, dovuta a una progressiva perdita di contatto con la dimensione personale del sociale. Pur rimanendo predominante una lettura storica e sociale plasmata sul modello capitalistico occidentale, la controcultura trova nella dimensione locale (nell’accezione che abbiamo specificato) un terreno su cui mostrare prospettive resistenti.
Come affermato, l’arte, per sua ontologica necessità, vive di una costante ricerca di relazioni, da quella minima tra opera, artista e pubblico a quella più ampia con la storia e i significati assoluti. Anche se il mondo e la società sono completamente cambiati, l’esortazione di Pasolini resta valida in una prospettiva di emancipazione da modelli ormai smentiti e in un’ottica di ricostruzione e di attenzione necessarie.
La caratteristica che rende particolarmente interessanti le varie edizioni di A Cielo Aperto dell’Associazione Culturale Vincenzo De Luca, è la perspicace e magari ostinata scelta dal basso: infatti, ciascun intervento artistico, come pure ciascun artista invitato, è sempre posto in relazione con l’ambiente e con i cittadini, in una infaticabile, perché necessaria, tensione verso una conversazione aperta dove l’assenza di ruoli fissi è la chiave di un dispiegarsi collettivo di linguaggi e di storie.
Nel ricco calendario di eventi e di progetti che ha caratterizzato A Cielo Aperto, desidero ricordarne particolarmente due che, per motivi simili ma allo stesso tempo specifici, hanno enfatizzato una visione del locale e una pratica artistica sul segno del confronto.
Il primo esempio, Una bandiera per Latronico di Eugenio Tibaldi, guarda la memoria storica collettiva: si tratta di un lavoro che, nel corso di un anno, ha portato l’artista e allo stesso tempo gli abitanti di Latronico (residenti oppure ormai lontani) a chiedersi quali fossero gli elementi caratterizzanti la loro storia, in modo da rappresentarli nel nuovo vessillo ufficiale della città che oggi sventola da una delle sue piazze panoramiche.
Da notare non è solo il carattere collettivo della scelta, ma soprattutto il fatto che, nonostante si trattasse di realizzare una bandiera che rappresentasse la città, la questione identitaria, tramite il confronto instaurato attraverso una serie di laboratori di gruppo, è stata resa fluida fino al punto da eliderla a favore di un dialogo fra chi vive Latronico e chi lo ricorda perché da tempo lontano, in una conversazione segnata da un desiderio di proiezione verso il futuro. Questo percorso, una sorta di viaggio fra tradizione, memoria e percezione del presente, ha trovato nella bandiera non un simbolo, ma una sorta di mappa, di testimonianza di una storia che si tramanda e che si intende vivere e questionare.
Il secondo progetto è Ogni dove di Bianco-Valente (loro stessi in parte nativi e in parte abitanti di Latronico). Gli artisti hanno realizzato una installazione site specific che, nel rimando a una frase di una canzone a loro cara (la scritta Ogni dove), ha la capacità di intrecciare il dato biografico a quello sociale. Essa, infatti, testimonia la presenza ma anche l’assenza dei tanti abitanti di Latronico che vivono altrove (la maggioranza emigrata per ragioni di lavoro) ma che continuano ad avere parte della loro vita nella loro cittadina di origine, attraverso le persone che sono rimaste e i luoghi a cui sono appartenuti. Si tratta del senso di una storia e di una società che guarda alle relazioni familiari, di amicizia o anche solo di spazio, che la distanza dilata ma continua ad alimentare, e che costruiscono lo spessore di un racconto collettivo scritto tanto dagli artisti che dalle persone che vivono Latronico o la visiteranno.
Una installazione pensata nel decimo anniversario della fondazione dell’Associazione, che guarda l’intera cittadina dall’alto e rende conto della complessità del mondo e delle vite che formano le nostre relazioni e, di conseguenza, noi stessi. Un lavoro che abita la città con la sua quotidiana presenza allo sguardo degli abitanti e che, giorno dopo giorno, rimanda un sentire comune.
Pasolini con le sue parole11 definì più volte genocidio il mutamento sociale che l’Italia stava vivendo in quegli anni, da società contadina a quella post-industriale cercando, nelle sue opere e nei suoi lavori, l’autenticità, rappresentata anche dalla cultura contadina che per secoli era stata la cultura italiana. Una società in cui il lavoro era ciò che procurava rispetto e in cui l’uomo, così come la natura facevano emergere“ (…) la certezza di una continuità con le origini del mondo umano (…)”12.
Certo, non possiamo augurarci o aspettare che il mondo ritorni regolato da una economia agricola ma, senza dubbio, è necessario riprendere da questo modello sociale le priorità tese all’uomo e al rispetto e valorizzazione delle sue qualità e potenzialità essenziali13 che, nella dimensione locale, divengono più facilmente accessibili e individuabili, in un percorso di emancipazione da qualsiasi senso di subalternità verso i vari “centri” del mondo.
L’arte quindi, se risponde ancora alla sua vocazione sperimentatrice e rivoluzionaria, non può non accettare la sfida del locale e avvicinarsi ai suoi interlocutori.
Il locale, quindi, diventa necessario spazio di evoluzione e di confronto in cui l’Associazione Vincenzo De Luca è senza dubbio una presenza resiliente, ma anche resistente, dove l’universalità vive nella sua pratica, mentre, attraverso la testimonianza delle installazioni ambientali, risuona il quotidiano scorrere della storia.
Note
1. Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti, Milano (I), 1976, pag. 78.
2. Si è soliti datare la nascita dei movimenti no global con la protesta e la dura repressione attuata durante l’incontro del W.T.O. (World Trade Organization – Organizzazione Mondiale del Commercio) del 1999 a Seattle (USA).
3. Naomi Klein, No Logo, Baldini & Castoldi, Milano (I), 2000.
4. e.g. Michael Hardt – Antonio Negri, Impero / Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano (I), 2002.
5. e.g. Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia (I), 2006.
6. e.g. Pablo Iglesias, Understanding Podemos, “New Left Review”, n. 93, maggio/giugno 2015, Londra (UK).
7. e.g. Panos Mourdoukoutas, The good, the Bad, and the Ugly Side of Globalization, “Forbes”, New York (USA), 10 Settembre 2011; Tim Devaney – Tom Stein, Your Business needs to get Social, Local and Mobile-Fast, “Forbes”, New York (USA) 16 Aprile 2013.
8. Usare la parola spettatore non risponde alla necessaria partecipazione pubblica che considero elemento costituente dell’opera.
9. Jorge Ribalta, Experiments in a new institutionality in Relational Object: Macba Collection 2002-2007, ed. da Borja-Villel Manuel e Marì Bartomeu, Museu d’Art Contemporani de Barcelona (MACBA), Barcellona (E), 2009, pag. 227, mia traduzione.
10. Fernand Braudel, Annales. Histoire, Sciences Sociales 13.4 (Ottobre - Dicembre 1958), pp. 725–753.
11. Ibid. Pier Paolo Pasolini, nota n. 1.
12. Ibid. Pier Paolo Pasolini, pag. 59.
13. La centralità della persona e del suo essere relazionale attraverso cui si costruisce la sua indipendenza e si conferma il necessario carattere sociale.
Associazione Culturale Vincenzo De Luca
L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca si costituisce nel 2005 a Latronico, in Basilicata. Dal 2008 promuove, autofinanziandosi, il progetto A Cielo Aperto, curato da Bianco-Valente e Pasquale Campanella, un’occasione per fare il punto sul senso e sui possibili sviluppi dell’arte in relazione a un contesto locale e alle sue specificità. La progettualità praticata nei laboratori è un elemento fondamentale per il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini. La politica culturale messa in atto si inserisce nel dibattito in corso sull’arte contemporanea, per lo sviluppo di un localismo consapevole, da cui far emergere storia, forme materiali e simboliche che accrescano il valore di spazio e luogo pubblico.
Info
Associazione culturale Vincenzo De Luca
Vico Settembrini 2 – Latronico (PZ)
Tel 0973 858896, cell. 339 7738963
associazionevincenzodeluca@gmail.com
www.associazionevincenzodeluca.com
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