La lontananza, sai, è come il vento. Per una geografia sentimentale
Pietro Rigolo

Non sono mai stato a Latronico, e quindi evidentemente non ho mai partecipato a nessuna edizione della rassegna A Cielo Aperto.
Nel 2014 Francesco Bertelé, amico e alleato di tante iniziative e percorsi, mi ha coinvolto nel suo progetto Centocapre, per A Cielo Aperto 2014. Abitando a nove fusi orari di distanza, il mio contributo si è limitato a qualche chiacchierata via Skype, a scrivere qualcosa e realizzare un video.



Nel momento in cui mi si chiede di partecipare a questa pubblicazione con un testo, quindi, sono prima di tutto attanagliato da un sottile ma persistente senso di colpa per non esserci stato, per non esserci, per essere sempre un faccione tondo su uno schermo che non può abbracciare, o condividere un pasto.
Mi giustifico pensando che la mia condizione, e il mio modo di relazionarmi con questa e altre esperienze, tutto sommato più interessanti e potenzialmente più “nutrienti” di molte delle cose che vedo e faccio quaggiù, sono in qualche modo parte del tempo in cui mi trovo a vivere.

D’altro canto cosa significa partecipare, oggi? Attraverso Facebook e altri social media, ogni giorno partecipiamo a svariati “eventi” che hanno luogo in svariati continenti. Il fatto che qualcosa capiti o meno, in quella determinata città, diviene un dato tutto sommato insignificante.

Anche nei musei e nelle mostre che visito, sono circondato da zombi che non sollevano lo sguardo dallo schermo del proprio telefono. Una volta scattata una fotografia, essa viene immediatamente postata da qualche parte, rendendo evidente al mondo intero il fatto che “ci siamo stati”.

Mi trovo a lavorare ogni giorno con l’archivio di un uomo, Harald Szeemann, che per oltre trent’anni ha ammassato qualsiasi documento che egli stesso produceva, o che in qualche modo gli fosse capitato per le mani. Dai piccoli disegni mentre si trovava al telefono, ordinatamente archiviati come “Telefonzeichnungen” e divisi per anno di realizzazione, alle lettere dell’Unicef che arrivano a tutti noi, immancabilmente, verso il 20 dicembre.

Trovandomi a prendermi cura, lentamente, di oggetti e carte per la maggior parte della mia giornata, sento di aver sviluppato una sorta di relazione tattile con i documenti che mi passano per le mani, al di là del valore dell’informazione in essi riposto: sono dei testimoni di un passaggio, di relazioni, di esperienze e di vissuti.
Invece che dispiegarsi giorno per giorno, mese dopo mese, questo archivio a cui sto lavorando da anni diviene sempre più nebuloso nelle sue intenzioni: quale significato si cela dietro all’ammasso? Perché non sparire, piuttosto? La ragione dietro a ogni archivio, ogni opera d’arte e ogni museo, in fin dei conti, sembra essere la stessa: segnare il proprio passaggio, dire “ci sono stato”, che forse attraverso il passare dei secoli e delle tecnologie rimane uno dei bisogni più impellenti dell’uomo.

Perché mostrarsi, e perché mostrare? Mi sembra che tutta la pratica di Francesco Bertelé - e scriverò di Francesco e Centocapre perché esso è l’unico progetto di A Cielo Aperto che conosco personalmente e attraverso il quale sono arrivato a scrivere queste pagine - si giochi esattamente su questo crinale tra il mostrare e lo sparire. Tra l’essere con il mondo, e per il mondo, e solo per se stesso. O forse queste due opposte attitudini in realtà si equivalgono, e fare qualcosa per gli altri non è che un altro modo di soddisfare il nostro narcisismo?

Ad ogni modo, ogni volta che penso a Centocapre e a un panorama più ampio di azioni attraverso cui leggerlo, la mia mente va alle immagini di Streamside Day, un’opera di Pierre Huyghe ormai propinata agli studenti in ogni scuola d’arte che si rispetti, o che si ritenga rispettabile.
Sognante e straniante, il video documenta il tentativo da parte dell’artista di istituire un nuovo giorno di festa per un nuovo insediamento residenziale in costruzione.



Centocapre si configura come un’operazione in qualche modo simile, nella sua gioiosa libertà d’inventare riti, narrazioni e celebrazioni. Allo stesso tempo però, se Pierre Huyghe decide di agire su una tabula rasa identitaria – Streamside sembra un villaggio idilliaco ma allo stesso tempo prefabbricato, intonso, e ancora vuoto – Latronico, addirittura a partire dal suono secco, metallico del nome, offre a Francesco Bertelé un campo d’azione completamente opposto. Un villaggio secolare – millenario, immagino – ricco di tradizioni, storie, personaggi. Centocapre stesso si è sviluppato come una lenta stratificazione di incontri, nottate, viaggi in autobus, e tutto questo ha contribuito alla realizzazione della celebrazione finale, con un peso forse ancora maggiore delle intenzioni iniziali.

Alcuni elementi chiave, in verità, rimangono a me completamente oscuri, persi nel torrente di eccitazione delle conversazioni via Skype, e a un certo punto ho smesso di prendere appunti, o di chiedere spiegazioni, perché ho compreso che Centocapre era prima di tutto un flusso, era un momento nella vita dell’artista e della comunità insieme a cui l’opera si veniva a costituire.
Questo forse è il vero significato di arte partecipata, relazionale o in quale altro modo la si voglia chiamare: semplicemente, passare del tempo insieme, cercare di vivere insieme.

A dire il vero, quando per la prima volta mi è stato accennato il progetto, la mia reazione è stata di distanza; l’idea di un artista che arrivi da lontano per inventare una nuova tradizione usando la popolazione locale e la sua storia mi terrorizzava, il progetto mi puzzava di abuso, di... di colonialismo, anche se nello scrivere questa parola ancora mi tremano le dita, questa era la parola a cui pensavo. Conoscendo Francesco, e fidandomi delle persone di cui si fida, sapevo che avrebbe utilizzato la giusta misura e che le relazioni che avrebbe instaurato sarebbero state paritarie e oneste, però comunque sentivo di voler tenere la distanza, non capivo.

Mi sono poi arreso dopo qualche settimana nel riflettere sul modo in cui mi parlava delle persone che incontrava, dei dialoghi che avvenivano in piazza, delle idee che scaturivano dalla condivisione delle giornate. La cosa più importante che ho capito forse, o a cui ho pensato di nuovo, è che come operatori culturali di qualunque natura partiamo sempre da una posizione - geografica, intellettuale, anagrafica - che a volte può farci assumere delle posizioni sconvenienti. Se ci approcciamo però con la dovuta apertura mentale, e con il desiderio di crescere e costruire qualcosa insieme, queste differenze non possono e non devono bloccarci. Nel pensare a tutte le buone e sante ragioni per non partecipare, stavo perdendo di vista cosa Centocapre avrebbe potuto diventare, se fatto nel modo giusto. La paura mangia l’anima, diceva qualcuno.



Quindi, in definitiva, anch’io in questo momento sono quello che sono: non so quasi nulla di A Cielo Aperto, e ho solo un pomeriggio per scrivere questo testo. A patto però di essere onesto con me stesso, con chi mi ha chiesto di scriverlo, e con chi mi leggerà, forse non dovrei rinunciare a partecipare. Non per mero desiderio di esserci - che comunque è difficile da arginare - ma per cercare di contribuire a un dialogo, trovare una voce.

A proposito di voce, non ho una grande esperienza nel parlare in pubblico o nel vedere le mie parole pubblicate (la cosa ancora mi eccita e terrorizza allo stesso tempo), ma ricordo in maniera ben precisa un paio di cose legate a queste esperienze di “presa della parola”.
Ho in mente la prima volta che mi è capitato di fare lezione all’Università, a Venezia. A un certo punto mi sono accorto che alcuni studenti stavano scrivendo qualcosa su dei quaderni, e per un attimo, prima di realizzare che stavano prendendo appunti, mi sono chiesto sbalordito cosa stesse succedendo. La mia voce in qualche modo aveva assunto uno spessore diverso, era come se attraverso di me qualcun altro parlasse, qualcun altro di cui valesse la pena registrare il tentativo di parlare di qualcosa (Dan Graham in quel caso, mi pare). Qualcosa di simile è successo la prima volta che ho visto un mio testo pubblicato online, e mi sono accorto che qualcuno che non conosco aveva lasciato un commento. Il fatto che la mia voce circolasse al di fuori della mia possibilità fisica di raggiungere un pubblico, mi ha lanciato in una specie di panico euforico.

Mi chiedo se gli artisti riflettano su questi aspetti del mostrare. Molti lo fanno, naturalmente. Mostrare la propria opera è una responsabilità, così lo scrivere, oppure, nel creare una mostra, il decidere cosa mostrare, e come mostrarlo. Di nuovo, per chi si lavora, quando si agisce nel campo della cultura? A me piace pensare all’arte come a una dedica o un ringraziamento all’inizio di un libro: un messaggio pubblico, a disposizione di tutti, ma in qualche modo cifrato e personalissimo, che possa fornire un accesso di tipo diverso a diversi tipi di pubblico. È l’artista stesso che decide quando parlare e quando stare zitto, cosa esporre e cosa tenere nascosto. Per questo sono sempre scettico quando sento locuzioni come “capire l’arte”, “spiegare l’arte”, e per quanto mi sforzi di avere al riguardo un’attitudine aperta e malleabile, non sopporto le audio guide e le visite guidate in un museo. Bisognerebbe cercare di starci insieme all’arte, e basta.

Mi rendo conto – di nuovo – che mi trovo a parlare da una posizione in qualche modo privilegiata. Il tipo di gesti artistici che mi interessano, però, e il tipo di mostre che mi piace andare a visitare sono quelli che si sforzano di agire sul pubblico come esperienza, piuttosto che come messaggio.
L’opera d’arte che per me ha valore è piuttosto quella che non capisco, e che pur non continuando a capire mi apre una nuova linea di esplorazione del mondo.

Porterò un esempio tratto dalla mia esperienza personale, dal momento che è l’unica che posso condividere. Qualche mese fa sono andato nello Utah a visitare i Sun Tunnels di Nancy Holt.
L’opera si trova in un luogo remoto e di difficile accesso, a circa cinque ore di macchina da Salt Lake City, in mezzo a una steppa popolata solo da qualche mucca che brucia al sole. Per lungo tempo mentre guidavo lungo un’autostrada interminabile mi sono chiesto che cosa stessi facendo, nell’assoluta certezza che sarebbe stata una cocente delusione. Quanto tempo posso spendere in mezzo a quattro tubi di cemento? - continuavo a domandarmi, pensando già alle cinque ore di viaggio al ritorno, dopo una visita di quindici minuti.



L’artista afferma da qualche parte che la sua arte è più democratica, più accessibile di quella nei musei – è semplicemente laggiù, a disposizione di tutti, sempre. È facile leggere queste affermazioni con cinismo: è accessibile a chi può affrontare il viaggio, a chi ha molto tempo e mezzi da investire: un intero fine settimana per vedere una sola opera d’arte.

Arrivato, è successo qualcosa. I tubi incorniciano il paesaggio, ti offrono una prospettiva attraverso cui guardare al nulla, al vuoto, creando in mezzo uno spazio umano, che si rapporta direttamente alla tua misura, al tuo corpo. Offrono una nuova cassa di risonanza alla tua voce, e sono dei flauti che suonano al vento.
Cercare di continuare a spiegare perché ho finito con il passare ore e ore in mezzo e sopra a quei tubi nel fango non ha senso. È stata in qualche modo un’esperienza estrema, nella sua dilatazione temporale, nella sua mancanza di avvenimenti, nella straordinaria bellezza di paesaggi che ti riportano indietro di milioni di anni. E penso di aver capito qualcosa in più di cosa intendeva dire Nancy Holt: l’artista non può fare altro che quello che sente di dover fare. L’opera poi chiamerà a sé il suo pubblico.

Tornando con il pensiero in Italia, quando mi immagino la prima volta in cui finalmente andrò a Latronico, un po’ il viaggio me lo immagino così; pieno di domande, di mezzi pentimenti, per poi ritrovarmi a vivere un’esperienza che mi faccia estraniare per un attimo dalla mia contingenza del chi sono e da dove vengo, per mettermi di fronte alla bellezza dello stare insieme.
Me lo auguro, perlomeno.

Los Angeles, settembre 2015



Associazione Culturale Vincenzo De Luca
L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca si costituisce nel 2005 a Latronico, in Basilicata. Dal 2008 promuove, autofinanziandosi, il progetto A Cielo Aperto, curato da Bianco-Valente e Pasquale Campanella, un’occasione per fare il punto sul senso e sui possibili sviluppi dell’arte in relazione a un contesto locale e alle sue specificità. La progettualità praticata nei laboratori è un elemento fondamentale per il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini. La politica culturale messa in atto si inserisce nel dibattito in corso sull’arte contemporanea, per lo sviluppo di un localismo consapevole, da cui far emergere storia, forme materiali e simboliche che accrescano il valore di spazio e luogo pubblico.

info
Associazione culturale Vincenzo De Luca
Vico Settembrini 2 – Latronico (PZ)
Tel 0973 858896, cell. 339 7738963
associazionevincenzodeluca@gmail.com
www.associazionevincenzodeluca.com


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