Testi critici sull'artista Vincenzo De Luca :

Testi critici tratti dal volume Vincenzo De Luca, Senza titolo, opere scelte 1975-1995

Il soggetto è l’esca(1) - di Pasquale Campanella 

Natura morta. Forme organiche in primo piano. Personaggi, disposti fianco a fianco.
Colori complementari: rosso e verde, rilevano la reciprocità dell’uno verso l’altro. Tra loro una grande macchia gialla ricorda Van Gogh, quando in una lettera al fratello Theo, afferma che se un pittore “[...] vuole dipingere le foglie di un paesaggio autunnale, dal momento che egli lo ha concepito come una sinfonia di giallo, questa è la verità che egli deve rappresentare, a prescindere se il giallo è lo stesso di quello delle foglie o meno” 2. 
Un’imitazione penosamente esatta della natura ci porterebbe lontani dalla sua rappresentazione. 

I toni dei rossi e dell’ocra che come lampi, cercano di emergere sulla superficie del tavolo, disegnano e circoscrivono fortemente un’ombra che fa tutt’uno con le forme organiche di primo piano. Ridisegnando il suo contorno, le configurazioni che emergono ricordano la scultura di Henry Moore, quelle forme che derivavano, com’egli ha affermato: “[...] dallo studio dei sassi, delle rocce, degli ossi, degli alberi, delle piante e degli oggetti naturali in genere, si possono dedurre alcuni principi essenziali riguardo alla forma e al ritmo” 3. 
Il grande vaso sui toni blu-azzurro è anch’esso forma scultorea. Il paesaggio di fondo si apre su una finestra tipicamente albertiana, 4 è scenografia, tipica della narrazione cinquecentesca. Il paesaggio all’orizzonte anima e mette maggiormente in evidenza gli oggetti in primo piano. Si stabilisce un dialogo, un sottile mormorio, tra i vegetali che primeggiano sulla superficie; questa potrebbe alludere ad un tavolo, ma anche ad un palcoscenico, accecante di giallo, che li vede, loro malgrado, interpreti principali di un’opera teatrale. 
La casa lontana, isolata negli appezzamenti di terra, oltre la soglia è una perfetta quinta scenografica che rimanda ad uno spazio illusorio, creato per essere semplicemente visto. 
Il vedere ingannevole costruito a memoria, uno spazio finto che, nonostante l’allusione alla tridimensionalità, è estremamente piatto, come quelle immagini che si guardano dal finestrino di un treno, anonime e sempre uguali. 

Un dipinto insolito: non ha colore, tonalità di grigi, di nero e bianco. Altra cosa strana è l’estrema chiusura di fondo, un muro scandito dalla verticale e dall’orizzontale dei mattoni; ne emerge uno spazio claustrofobico, angosciato. 
Colpisce sullo sfondo una piramide rovesciata a gradoni, di colore più scuro, come nel monumento funerario di Maria Cristina d’Austria di Canova, dove il simbolo della morte e della tomba è la piramide. 
Potrebbe essere un varco, un passaggio che indica altre spazialità, altri modi di vita; trapasso? 
Una linea nera attraversa tutto il quadro, tre bottiglie sono poggiate su un piano scuro; una presenza è più attiva, un’altra è passiva, l’ultima funziona da testimone; le due bottiglie di destra sembrano toccarsi, dialogare; l’altra più panciuta e piccola è lievemente spostata e più centrale. 
“Lo stesso accade a teatro, in una scena con tre attori, quando uno dei tre agisce, il secondo subisce l’azione del primo e il terzo, immobile, assiste alla cosa [...]” 5. 
È forse una coppia di genitori che portano a spasso il figlio? Un semplice testimone passeggero, che si trova lì momentaneamente e incrocia una coppia? 
È tutto molto sospeso, le stesse ombre di sbattimento sembrano far parte degli oggetti, come un prolungamento degli stessi. 

L’ambientazione delle nature morte non è sofisticata; in molti casi si percepisce una volontà guidata più dal caso, all’intuizione del momento, dalla voglia di imprimere un’immagine che è passata nella mente. Vincenzo ha visto i grandi maestri del Novecento, studiato e saccheggiato parte delle nature morte di Felice Casorati; il quadro Rape sul tavolo del 1949 gli ha fornito il tavolo bianco, come impianto scenico per un suo dipinto e le geometrie di fondo, l’intuizione per i suoi scarni paesaggi all’orizzonte dove linee di fuga si diramano in molteplici direzioni creando ampi spazi. 

Vincenzo non ha fatto altro che “pensare per figure” 6, le figure-immagini della sua infanzia a Latronico 7 e le numerose immagini flashdi tanti viaggi verso Milano. 
Tutte figure che bloccava sulle tele come schegge, frammenti; non è importante l’ordine d’arrivo, sono pensieri figurati, ricordi sotto forma di immagini che si moltiplicano senza un’apparente logica. 

Una Gestaltungin piena, quella di Vincenzo, che fagocita tutto ciò che lo circonda o che sia a portata d’occhio. Questa sua pacata irruenza riporta alla memoria quanto diceva Hans Prinzhorn: “[...] come le infiltrazioni d’acqua che, giorno dopo giorno, affiorano e scorrono in molteplici direzioni verso il fiume, così affiorano e scorrono gli impulsi espressivi [...]” 8. La creatività è urgenza, bisogno, necessità che scorre appunto come un fiume e dovrebbe colmare un vuoto; l’organizzazione di un’opera è un’esperienza emotiva, trascende e nega quello che si vede, allude sempre ad altro. La creazione non è un’illuminazione che si consuma nel chiuso dell’interiorità dell’artista; l’atto creativo, non avviene mai come pura traslazione dall’interno verso l’esterno ma piuttosto nel suo farsi. Mentre si agisce, si decide cosa togliere o aggiungere: “[...] non si riuscirà a capire com’è composta un’immagine – diceva Bacon – o perlomeno sarà molto difficile accorgersene. È per questo in fondo che è estenuante: perché è totalmente accidentale […] è come il percorso di un acrobata […]” 9. Nella pittura di Vincenzo tutto questo non c’è, o meglio, lui vorrebbe che non ci fosse, ma non riesce mai a dominare totalmente l’immagine. È come se qualcosa gli sfuggisse dalle mani, la sua pittura autodidatta non gli dà nessuna possibilità di contenimento. È proprio questo che a volte rende interessante un’immagine: lo scarto che si crea tra il volerla dominare e il rendersi conto di non poterci mai riuscire. 
D’altronde Giacometti, in una delle sue numerose interviste, affermava di essere costretto a continuare a scolpire, a imprimere alla materia le sue figure perché non ne era capace e nessuna riusciva mai a soddisfarlo. 

L’ornitorinco è uno strano animale. Ha il becco di un’anatra, le zampe palmate, il corpo di un mammifero e depone le uova. È un “essere” composito, ed è questo che lo rende particolare: vari elementi che solitamente sono corrispondenti ad un determinato uso, qui svolgono un’altra funzione. Il fascino dell’ornitorinco si determina in questo cambiamento di funzione, o meglio, nel mutamento. 
Accostare pezzi diversi, Vincenzo lo ha fatto in alcune opere, sorta di “puzzle” composti da pezzi ispirati a quadri di pittori a lui cari, come Van Gogh, Cézanne, Morandi, Giacometti, De Chirico. 
Carpire da un dipinto un particolare, facendolo proprio, e ricontestualizzarlo in uno spazio nuovo come se non avesse avuto nessuna vita precedente. 
Il Campo di grano con volo di corvi 10 appare per incanto da una finestra aperta, in primo piano le “mele” di Cézanne, forme che sottolineano la riduzione della natura a geometria quasi astratta, piana. Le opere sono costruite come un collage di forme e di sensazioni in cui “[...] se l’immagine costituisce da una parte lo svelamento dell’idea iniziale, dall’altra è anche testimonianza del procedimento pittorico che lo produce e ne svela l’interno circuito, la gamma complessa di riflessi, le possibili corrispondenze, gli spostamenti ed i rimandi fra le diverse polarità […]” 11. 
Diverse polarità che, nei frammenti, dividono spazialmente e formalmente l’opera; anche se Vincenzo tende ad isolare il frammento a favore dell’unità. 
Sembrerebbe così, ma sotto lo sguardo l’opera si sfalda, ridisegna confini, campi e zone che, dietro l’impulso di una materia densa, viaggia come un film su una moviola in cui si cerca di mettere in sincrono suono e immagine. Nel montaggio c’è un istante in cui tutto torna e funziona, è proprio quell’istante che Vincenzo cerca di restituirci, egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno alcuna importanza. Lo stesso Gauguin affermava di chiudere gli occhi per vedere. 
La cecità, il fallimento del non riuscire a dare continuità all’opera, crea una perenne emorragia in cui il colore si coagula e condensa o si sbriciola come il pane. 

Libecciata 12, un’opera di Giovanni Fattori, è stata dipinta da Vincenzo come un paesaggio visibile da una finestra che, come un rettangolo aureo, si apre su questa mareggiata, con un vento impetuoso. 
All’interno, un piano, di cui si vede solo un angolo, è coperto da una linea spezzata di mele, le cui ombre come punti euclidei rilevano la natura geometrica dell’insieme. Una sfasatura è introdotta dall’andamento, in due direzioni opposte, del movimento delle mele all’interno e quello degli alberi, sotto la spinta del vento, all’esterno. 
Non abbiamo mai una verità compiuta ma qualcosa che si manifesta e rivela un duplice senso. 
“[…] In Heidegger, le opere d’arte sono un rivelarsi di qualcosa che balena per un istante e di cui noi non comprendiamo appieno il senso, pur percependone la profondità. È come se l’arte toccasse in noi delle corde che vibrano e ci commuovono senza sapere il perché. 
Quando, ad esempio, Heidegger esamina il quadro del giovane Van Gogh, che rappresenta degli zoccoli di contadini, osserva che è possibile estrarre il loro senso artistico solo se non guardiamo ad essi come a oggetti d’uso, se prescindiamo dalla loro funzione. Cogliamo allora le tracce di una vita vissuta, la fatica del lavoro, la sobria solennità dell’esistenza […]” 13. Nell’opera in questione, il dipinto di Fattori è negato come tale, per rinascere come “paesaggio vero”; il nuovo contesto lo rimanda con un altro senso, non più opera da ammirare, da guardare, ma realtà concreta che provoca sensazioni, ricordi improvvisi, immagini colte per un istante. 

La sensazione è deformazione e agisce anche sul corpo, ci cambia, ci sentiamo “altro”, è quello che Francis Bacon praticava quotidianamente nel suo lavoro pittorico; sicuramente Vincenzo ne era a conoscenza, tanto da assumerlo come un ago pungente, un bilanciere, un timone senza meta, nella sua ricerca pittorica. 
I cambi repentini di sensazione che si registrano nel suo lavoro, che egli cercava di mascherare, o forse ignorava, si sviluppano per caduta. “[...] Ogni sensazione si muove a diversi livelli, appartiene ad ordini differenti, agisce in più campi. Così che non esistono delle sensazioni appartenenti ad ordini differenti, ma diversi ordini di una sola e medesima sensazione [...]” 14 
Nei diversi ordini di sensazione, proprio la caduta, è la parte più viva che determina un ritmo attivo, lo spazio pittorico può dilatarsi, dissiparsi ma al contempo ridursi, contrarsi. 
Il pennello sotto le spinte irregolari della mano cerca, annaspando, di costruire e rendere visibile la sensazione; quest’affannosa ricerca è evidente, balza agli occhi. 
Appena a casa, senza togliersi la tuta da metalmeccanico, Vincenzo riprendeva a dipingere, come se non volesse perdere quell’attimo, o meglio era il bisogno, la necessità, l’urgenza a spingerlo verso la tela e a cercare la sensazione di un momentaneo benessere. 
Il gioco dura poco, la restituzione dell’immagine crea una vertigine insopportabile, un collasso, un senso di perdita e di caduta che riapre i giochi. Forse la prossima volta sarà meglio? 

“È un errore credere che il pittore si trovi dinanzi ad una superficie bianca. All’origine della credenza nella figurazione c’è questo errore: se infatti il pittore fosse dinanzi a una superficie bianca, potrebbe riprodurvi un oggetto esterno, che quindi fungerebbe da modello. 
Ma non è così. Il pittore ha molte cose nella testa, attorno a sé o nell’atelier. E tutto ciò che egli ha nella testa, o attorno a sé, è già nella tela, più o meno virtualmente, più o meno attualmente, prima che il pittore cominci il suo lavoro. Tutto questo è presente sulla tela sotto forma di immagini, attuali o virtuali. Sicché il pittore non deve riempire una superficie bianca, semmai dovrebbe svuotare, sgomberare, ripulire. Non dipinge quindi per riprodurre sulla tela un oggetto che, come si è detto, fungerebbe da modello, ma dipinge sopra delle immagini che vi sono già, per produrre una tela il cui funzionamento rovescerà i rapporti fra modello e copia. 
Ciò che insomma occorre definire è l’insieme dei “dati” presenti sulla tela prima che il lavoro del pittore cominci, e tra questi dati, quali rappresentino un ostacolo, quali un aiuto, o anche i risultati di un lavoro preparatorio [...]” 15. 
Questo testo ha un gran fascino, ci sottopone ad una revisione del rapporto tra modello e pittore. 
Anche Michelangelo affermava che le sue sculture erano già presenti nei blocchi di marmo e a lui non restava che liberarle; gli Schiavi ci restituiscono pienamente questo senso, torsi e braccia che tentano di disfarsi della materia ingombrante. 
La materia pittorica invade le opere, tutte senza titolo, dipinte da Vincenzo nell’arco della sua esistenza e sembrerebbero negare quanto Deleuze scrive e teorizza. 
Il pigmento è pasta pittorica fin troppo evidente, compiaciuta, goduta, mangiata, fagocitata con gusto; il colore costruisce forme, usa i toni, il chiaroscuro, per plasmare sotto il nostro sguardo la realtà degli oggetti e dei paesaggi che ci circondano. Eppure, se si guarda con zelo, si scoprono, tra gli interstizi delle zone morte, pennellate sbavate, colore informe e inciso, slavature di trementina, contorni grossolani, cancellature con lo straccio, macchie e coaguli di colore. Sembra che anche lui ripulisca, liberando contorni e forme dalla materia pittorica, come un archeologo che cerca di non muovere ciò che sta scoprendo mentre riporta alla luce oggetti lasciati lì dopo un pasto o appoggiati a caso. 

Nella natura morta con testa classica, il colore è fortemente caustico, sono visibili le molteplici stratificazioni che vanno in più direzioni. Le pennellate non sono riuscite a nascondere le erosioni che emergono sotto il colore, dando alla forma una precarietà, una fragilità, uno sbriciolamento. 
È esattamente quello che rammenta, di Giacometti, l’amico fotografo Brassaì: “Ricordo il suo atelier intorno al 1940, quando i busti, come in seguito ad una rivoluzione climatica o geologica, cominciavano a rimpicciolirsi fino a ridursi a teste di spillo [...]” 16. 
Erosione e distorsione della forma, la stessa che negli anni ‘30 compare nelle opere di Scipione e Mafai, 17 che bucava coi coltelli o gettava in un angolo della terrazza le pitture che non lo persuadevano, e li giacevano sotto l’acqua e il sole. È esattamente quello che si vede in natura morta con testa classica dove nella raffigurazione della testa i colori sembrano arsi dopo che la pioggia ha lasciato una traccia del suo passaggio. Una pittura fatta di cicatrici. 
I toni dei violacei, degli azzurri e dei rosa spenti continuano senza cesura dal tavolo sullo sfondo, una linea sottile li divide, creando piani prospettici che determinano un ambiente. 
È forse un’immagine del dormiveglia? All’improvviso, al risveglio le cose sembrano prossime a svelare il loro segreto, anche solo per un attimo. Non si vedono nitidamente le forme dipinte, sembrano in alcuni tratti deformi e sfugge sempre un dettaglio. 

Natura morta. L’arte di genere, a volte considerata “minore”, è la tematica più sentita e sviluppata nel lavoro artistico di Vincenzo De Luca. Gli oggetti sono “la dura realtà”, come affermava Giorgio De Chirico, che con la loro durezza formale ci circondano, stanno intorno a noi. 
Affrontarli quotidianamente, disegnandoli, è attribuire loro un cambiamento, un nuovo statuto di bellezza in cui viene meno il senso di duplicare la realtà. 
Le nature morte di De Luca sembrano poco realistiche, perché una percezione squisitamente figurativa si rivela astratta. È tra questi due poli, astrazione e figurazione presunte, che prende forma un nuovo senso dell’opera: una realtà tra contingente e trascendente. 
Alcuni dipinti possono essere letti in chiave simbolica, come un rebus in cui la vicinanza degli oggetti e dei frutti che mantengono una disposizione in piccoli gruppi o si presentano come elementi isolati, rimanda concettualmente ad un’ipotetica risoluzione. Anche i tagli compositivi, estremamente forzati, in cui sono affettati gli oggetti rappresentati e le posizioni angolate di molti elementi d’arredo determinano una condizione d’estrema precarietà visiva, quasi una fuga da un pericolo imminente. 
Nella “sedia con limoni”, l’abbandono diviene claustrofobia, l’angolo di fondo stringe, come in una morsa, tutta la composizione; vite inerti, oggetti in posa sono la testimonianza di un passaggio che qualcuno ha abbandonato su un piano d’appoggio. 
Non sono still life le tracce pittoriche che ci lascia vedere Vincenzo, ma composizioni non composte, in cui gli oggetti faticosamente stanno insieme: i resti di un pasto o l’affannosa ricerca di una sistemazione adeguata di ceramiche, vetri, oggetti vari e frutta su un piano. 
Sono tutti tentativi, suggeriti dalla suggestione del momento; non c’è ricerca formale come in Giorgio Morandi, dove la realtà è scelta con cura, scrupolosamente predisposta in obbedienza ad un preciso ordine intellettuale che lo porta a ritrovarsi in quel frammento di mondo. 
In Vincenzo non s’intravede questa precisa coincidenza, questo rispecchiarsi; le nature morte danno un senso di già visto, quel già visto che tende alla sparizione. In un mondo in cui bisogna a tutti i costi apparire, scomparire è un atto profondo, una presa di posizione che porta a vivere la propria vita seguendo i tempi e i luoghi di tutti i giorni. Non esiste l’affanno per inseguire le scadenze, gli appuntamenti mondani ma solo il fluire. 

Le prospettive sono sghembe, le nature morte sono spiate leggermente dall’alto, addirittura in molti dipinti abbiamo l’impressione che ci siano più punti di vista come negli studi prospettici del fiammingo Jan Vredeman. Si ha l’impressione di stare dentro il quadro, in un ambiente e di farne parte. 
Le innumerevoli finestre, dietro gli oggetti, aperte su paesaggi all’orizzonte o su scorci che avviano ad un percorso, è quello che percepiremmo per distanza e posizione stando dentro l’immagine pittorica. 
In altri dipinti, alcuni soggetti come “bottiglie sul tavolo”, “piatto con arance”, “mele su di un piano”, “vaso con fiori”, “caffettiera con frutti” e la già citata “sedia con limoni” offrono il fronte subito, rivolto direttamente allo spettatore. 
Per Vincenzo De Luca la realtà inanimata delle cose è una ripresa in diretta, per ricondurre sul campo pittorico una mediazione, più che una rielaborazione, tra il suo io e la realtà, flashback in cui le immagini si rimontano come scorie della memoria. 
Molto probabilmente le nature morte non sono tutte tassativamente copiate dal vero ma frutto di questo montaggio mentale, evocazione di cose possedute nel desiderio, di forme viste nella luce della coscienza e ritrovate nella realtà pittorica attraverso un paziente lavoro di cucitura tra idea e cosa. 
Questo nuovo rapporto tra gli oggetti, l’ambientazione, il fondo e l’osservatore, ripropone una soluzione di messa in scena in cui “[…] la natura morta è allora un luogo teatrale per le cose al posto degli uomini, ma con le stesse regole di disposizione sul palcoscenico in base a una scala gerarchica intestata all’importanza degli attori, dalla singolarità e nobiltà del protagonista all’anonimato del coro, eventualmente riscattato dalla singolarità delle voci, delle forme e delle cromie dei singoli oggetti […]” 18. messa in posa, come abbiamo già detto, in Vincenzo non sempre avveniva seguendo regole compositive coerenti ma attuando un continuo scambio fra il davanti/dietro e il prima/dopo. 
Il tempo è presente in molte nature morte e allude a diversi momenti della vita quotidiana. 
Il piano di un tavolo adiacente alla finestra su cui è posata una serie di ampolle e un grande cratere si affaccia su un campo di grano già raccolto, un mare di covoni, mentre la natura è rigogliosa negli alberi fioriti mossi da una leggera brezza. 
Dal quadro/finestra al palcoscenico di teatro: cioè dalla pittura di paesaggio alla pittura di natura morta; lo sguardo lontano e lo sguardo vicino. Questi due modi di vedere si scambiano funzionando come scenografia o come soggetto, contrapponendo il tempo esterno, mobile, e il tempo interno, immobile, messo in posa. Si blocca la caducità delle “cose” e dello sguardo in una dimensione di sospensione che non riesce mai a contenere tutto. 
Un pittore ci aveva promesso un quadro 19 

Note
1. David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003, p.162. 
2. Vincent Van Gogh Lettere a Theo, Guanda, Milano 1990, p.52. 
3. Giovanna Uzzani, Henry Moore, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2005, p.122. 
4. Leon Battista Alberti (1404-1472), architetto. La definizione albertiana di quadro è: una superficie o tavola incorniciata, posta ad una certa distanza da un osservatore che guarda, attraverso di essa, un mondo altro o sostitutivo. 
5. C. Samuel, Entretiens avec Olivier Messiaen, Belford, Parigi 1967, pp.70, 74. 
6. Franco Rella, Pensare per figure, Fazi, Roma 2004. 
7. Paese natio di Vincenzo De Luca. 
8. Hans Prinzhorn, L’arte dei folli, Mimesis, Milano 1991, p.11. 
9. David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003, pp.11, 13. 
10. Van Gogh, 9 luglio 1890, Amsterdam, Rijksmuseum Vincent Van Gogh. 
11. Achille Bonito Oliva, La Transavanguardia Italiana, Politi, Milano 1980, p.55. 
12. Giovanni Fattori, Spiaggia in burrasca con tamerici (libecciata). Firenze, Galleria d’Arte Moderna. 
13. Remo Bodei, Il volto del tempo, sull’opera di Roberto Ciaccio, Electa, Milano 2002, p.22. 
14. Gilles Deleuze, Francis Bacon logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995, p.87. 
15. Gilles Deleuze, ibid, p.157. 
16. Alessandro Del Puppo, Alberto Giacometti, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2005, p.27. 
17. Maurizio Fagiolo Dell’Arco e Valerio Rivosecchi, Scipione, Allemandi, Torino 1988, p.72. 
18. Alberto Veca, Ruolo e senso della natura morta, in Natura morta Italiana, a cura di Mina Gregori,Electa, Milano 2003, p.55. 
19. Jorge Luis Borges, Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino 1971, p.25.


Lettera a un amico - di Egidio Forastiere

Quando le persone se ne vanno diventano tutte buone. Non sempre.
Perché tu eri buono anche prima di andartene.
È curioso dopo dieci anni capire che non ci sei. O forse è normale, perché non tutto si può capire. Come la bontà. La bontà o ce l’hai o non ce l’hai.
Non puoi inventartela. Si nasce buoni. Si vive alla meglio. E si spera di finire il più tardi possibile.
Non lo so quello che hai perso andandotene. So per certo che io non ho potuto vivere e gioire della tua bontà. Caro Enzo adesso non ci sei e stranamente non mi sento solo. Perché davanti a me ho persone che ti hanno conosciuto e ti hanno amato.
Escludo parenti stretti perché il loro amore è scontato. Non mi sento solo perché ho davanti a te i tuoi amici.
I parenti ce li sceglie Dio. Gli amici me li scelgo io. Ti avevo scelto così come tu avevi scelto me. E se penso che posso dividere la tua assenza con altre persone, mi sento meno triste e meno rabbioso.
Vuoto e rabbia appena te ne sei andato e poi piano piano tristezza stemperata nel ricordo. Un ricordo particolare, perché non riguarda solo il taglio dei tuoi occhi a mandorla ma ricordo che fa rivivere a tutti noi emozioni e senso di amicizia.
Come ti muovevi e come guardavi gli altri… Occhi comprensivi e movenze apparentemente distratte. Se le braccia e il corpo andavano come andavano, il tuo cuore era lì fermo, a puntare e a colpire chi ti stava vicino. Ti ho seguito dappertutto Latronico, Milano…
Siamo cresciuti insieme, in luoghi e contesti diversi, eppure siamo rimasti sempre uguali, pronti as dividere amicizia e voglia di stare insieme. Parlare con te significava essere percepiti, perché ti era naturale non giudicare gli altri e mettere tutti a proprio agio.
Anche chi ti aveva appena conosciuto aveva la sensazione di averti conosciuto da sempre.
La tua semplicità era disarmante perché non volevi importi su nessuno. Ti veniva naturale dare, perché bastavi a te stesso. In cambio non chiedevi nulla perché chiedere - per te – era quasi un peso, una fatica. Come eri bravo a mostrarti paziente e disponibile. Era questo il tuo pregio più grande. Perché anche tu soffrivi, anche tu eri inquieto ma inquietudine, sofferenza e lacerazione non le scaricavi su nessuno.
Ecco perché puoi essere fiero di avere ancora tanti amici.
E non è vero che l’amicizia finisce quando muore l’amico. L’amicizia è il sentimento che attraversa le cose e le supera. È sfuggente, non la tocchi, ma la vivi. Non c’è cosa più concreta dell’idea della pietra. La pietra si sfarina e svanisce. La sua idea rimane.
Tu non ci sei ma ti vediamo nei tuoi quadri. Sono in questo catalogo e potranno esser d’aiuto a chi non ti ha conosciuto in vita. Il critico d’arte giudicherà.
Noi, non avevamo un pittore affermato. Ma un amico affermato, sì.
Vogliamo ricordarti con un sorriso e un forte abbraccio alle tue sorelle.
Non siamo stati sfortunati noi nel perderti. Sfortunato è chi non ti ha mai conosciuto.
A nome dei tuoi amici,
Egidio

Roma, 22 gennaio 2005




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